La cosa che maggiormente mi manca, nel mio ritorno in città ed al lavoro, è il silenzio. Siamo invasi da rumori e da parole. Invasi, si, ho detto proprio invasi.
Perché sono talmente tanti i rumori e le parole (che a volte sono peggio dei rumori) che non si riesce a mettere un limite, non si riesce a difendersi.
Le parole penetrano indipendentemente dalla nostra volontà di accoglierle e lavorano a livello subconscio. Anche se ci sembra di non averle "sentite " con le orecchie sono comunque in grado di penetrarci e lavorare dentro di noi.
Sono in grado di modificarci fin nel profondo soprattutto quando sono troppe, quando sono invasive, quando sono aggressive, quando servono a scaricare ansia, quando sono urlate, quando sono dette tutte insieme.
Vorrei una bolla per isolarmi e sentire finalmente il silenzio per poter ritrovare me stessa.
Perché tutti questo stimoli rumorosi non fanno altro che aumentare il nostro stress e metterci perennemente in uno stato di allerta e di difesa continua.
A volte mi sento come Agassi di fronte alla macchina sparapalline: solo che invece delle palline sono bombardata dalle parole.
Sta diventando un incubo l'incapacità di ascoltare il silenzio, la necessità perenne di riempire dei vuoti... tutto per non guardarsi dentro e non ascoltarsi.
Ormai le persone entrano a studio parlando e non sputano a terra neanche un secondo. Non puoi far domande perché non c'è lo spazio né il tempo. Devo provare ad inserirmi all'interno di un fiume di parole che escono dalla bocca alla velocità della luce....ma che non raccontano niente di sé. Sono parole vuote, totalmente prive di "personalità ". Non a caso sono tutte uguali, fotocopie. Come se ogni individuo fosse il clone del precedente.
Comunicazione senza personalità. Comunicazione omologata.
Potrei mettere il pilota automatico, ficcarmi sul naso degli occhiali finti con gli occhi aperti disegnati e stare qui a far finta di ascoltare.
Perché la mia funzione non esiste più.
Non si vuole essere ascoltati, non si vuole essere aiutati, non si vuole essere curati.
Si vuole essere visti. Si vuole affermare la propria esistenza.
Perché si ha il terrore del vuoto ma, soprattutto, si ha il sacro terrore di sparire, di non esistere.
Siamo stati talmente abituati a vivere in una realtà virtuale, dentro la scatola del telefonino, che siamo terrorizzati all'idea di non esistere se lo si spegne. Di non esistere se non mi si vede. Di non esistere se non parlo.
La conferma della mia esistenza è data dal velocità di risposta ad un messaggio, dal contatto continuo e ripetuto con le persone, dal dover ricordare sempre la propria esistenza attraverso un "bip".
Volersi bene oggi è misurato dal numero di messaggi che mando, dal numero di like che mi metti, dal numero di volte che mi contatti.
Il desiderio non esiste più, come l'attesa.
Non si può sentire la mancanza di qualcuno, perché genera ansia. Un'ansia tremenda. Come il bambino che pensa che la madre non esista più nel momento in cui, per le prime volte, va in esplorazione da solo e la mamma scompare dalla sua visuale.
Non ci sono legami, ci sono vincoli. C'è un bisogno di conferme continue da parte del mondo, altrimenti ci sembra di non esistere.
Ed il paradosso è che si creano legami solo virtuali, di dipendenza, con soggetti che non conosciamo perché quando li incontriamo, siamo troppo impegnati a fare e poco a sentire, ed a sentirsi.
Guai a stare seduti vicino in silenzio o senza fare nulla: guai a dire che si vuole stare da soli ad osservare casomai se stesso ed il mondo. Guai a fermarci per cercare di vederci davvero.
Potremmo davvero essere terrorizzati dall'idea di "affrontarci".
E allora, parliamo, parliamo, diamo fiato alle trombe senza però comunicare nulla. Come in un'orchestra senza spartito, nella quale ogni strumento suona quel che gli pare in modo totalmente disarmonico.
Io sto qui e so che non posso fare davvero nulla per aiutarvi. Perché a me arriva solo rumore.
Il problema vero è che queste parole non sono neutre, non sono solo fastidiose ma dannose. Perché i segnali che inviano, a chi le pronuncia ed a chi sta intorno, sono di totale disarmonia. Ed è noto che segnali disarmoniaci creano malattia, modificando la nostra struttura. E non solo il nostro pensiero.
E sono segnali potentissimi, molto più potenti delle medicine chimiche. Segnali per i quali, tra l'altro, non c'è vaccino né pillola che possa guarirci.
https://generiamosalute.it/
Devo ammetterlo: guardando i bambini ed i ragazzi di oggi mi rendo conto di avere avuto un'infanzia, adolescenza e giovinezza tremende, tristissime.
Stando al lido a leggere vedo continui saliscendi di ragazzi di oggi età che vanno al bar ed ordinano tutto ciò che vogliono senza pagare ma facendo mettere tutto sul conto dei genitori. Che poi, a fine estate, pagheranno senza chiedere cosa abbiano preso. Anche perché, nel frattempo, i ragazzi l'avranno dimenticato.
Se l'amico ha il sup, non c'è neanche bisogno di chiederlo perché arriverà tempo due giorni dopo averlo ordinato su amazon. Escono tutte le notti e tornano a casa quando gli pare senza dover dare informazioni sull'orario di rientro. I genitori hanno i geolocalizzatori sul cellulare quindi sanno dove sono (con chi e a fare che no, ma cosa importa). E poi, come fai a dire di no ad un ragazzo che vuole uscire a divertirsi?
Puoi alzarti quando vuoi, mangiare quando e cosa vuoi, dormire quando ti pare tanto sono i grandi che si adattano a te ed alle tue esigenze. Non devi quasi neanche chiedere perché sai che la risposta sarà sempre si, qualunque cosa tu voglia. È come avere una bacchetta magica con desideri illimitati: chiedi e si realizza in men che non si dica.
Non devi neanche litigare con la ragazza o con l'amichetto perché tanto basta che tu dica a mamma che tu hanno trattato male che lei interviene a difenderti. Se la scuola dove stai non ti piace, nessun problema, la cambi. Se devi recuperare tante materie è perché sei stressato, e stato un periodo particolare e devi quindi rilassarti. Non ti si può assillare con lo studio.
Mia madre non era cosi; e nemmeno mia nonna o la mia bisnonna o mio nonno.
Noi, da ragazzini, mangiavamo "la pastarella" la domenica. Io andavo con nonno da Bellavia e potevo scegliere una pasta. Mica c'erano i mignon! Ne sceglievi una sola. Potevi solo decidere come mangiarla: tutta insieme dopo pranzo, dividendola a metà tra pranzo e cena. Oppure, ma dovevi essere brava, potevi accordarti con un altro della famiglia per fare a metà. E così potevi saggiare due mezze paste invece di una. Solo che di pastarelle che ti piacevano mica ce n'era una sola: e allora passavi la settimana a pensare a quale fosse meglio avere, a quale "desiderassi di più ". Dovevi scegliere.
Quando andavi in vacanza gli orari erano rigidi: avevi sicuramente più libertà che a casa ma comunque c'erano regole ed orari da rispettare. E non c'erano conti aperti al bar. Vuoi il gelatino (non il gelato ma il gelatino)? Va bene ma puoi scegliere tra questi e solo se hai finito il pranzo. E oggi, domani no. Oppure, ancora peggio: lo vuoi ora o stasera in piazzetta quando esci con gli amici? Scegli perché due non è possibile. Che dire, lo vorrei ora ma poi stasera che faccio, tutti mangiano il gelato ed io guardo? No. Per cui mi tocca non mangiarlo ora ed aspettare stasera, quando andremo in piazzetta. Però così potrò scegliere i gusti che preferisco invece di prendere quello confezionato.... e mi sa che è meglio aspettare, perché posso avere di più, in fondo.
L'attesa della befana era enorme perché potevamo avere la calza con tante leccornie (o schifezze, come diceva mia madre). Una volta aperta, mamma ci dava una ciotola per uno, ci scrivevamo su il nome e potevamo scegliere come.e mangiare la calza. Tutto in breve tempo o dilazionandolo? Io appartenevo alla seconda categoria: mangiavo una cosa al giorno e non tutti i giorni, lasciandomi le cose che mi piacevano di più alla fine così potevo gustarmele meglio. Era dura aspettare, controllarsi, scegliere ma quando arrivava il pezzo forte, cavolo, era una goduria. Talmente grande che c'era un rito per cui la scartavi con calma e lentezza, la mangiavi a morsi piccoli e te la gustavi. Anche perché sapevi bene che, per averne un'altra, dovevi aspettare pasqua o una festività particolare. E lo stesso accadeva con le uova di pasqua.
Non dicevano: non puoi mangiare tutta la calza insieme...no, erano perfidi. Dicevano: scegli tu come vuoi mangiarla, sapendo che però, fino a pasqua, non avrai altro.
Cavolo: il problema era mio e solo mio, la scelta era mia e solo mia, le conseguenze della scelta erano mie e solo mie e non potevo prendermela con nessuno perché la decisione era stata la mia. Se avevo scelto male, cavoli miei.
Lo stesso era per i giocattoli: mica non me li compravano. Scherziamo! Bisognava scegliere cosa chiedere per quando li avrei avuti. A Natale! Ma siamo a giugno! Meglio: così hai più tempo per pensare e decidere cosa ti piace di più.
La paghetta quando ho iniziato ad uscire? La famosa settimana? È questa, vedi tu come usarla. Tutto subito o metti da parte per comprare quella cosa che ti piace tanto ma costa o per andare al concerto? Forse è meglio mettere da parte una quota, anche grande, per poter poi avere una cosa più grande.
E mentre mettevamo soldi o caramelle da parte, stavamo imparando a scegliere cosa ci piacesse di più. A dare un valore diverso alle cose diverse, perché non tutto è uguale.
Imparavamo ad aspettare ed a costruirci, nel tempo, delle opportunità. Imparavamo che possiamo fare ed avere tanto ma si deve lavorare per ottenerlo e fare dei sacrifici. Che non sono tremendi perché, in fondo, sono fatti per ottenere qualcosa a cui teniamo molto. Quindi la "sofferenza" di oggi sarà compensata domani dal risultato raggiunto.
Ed Imparavamo a sognare e desiderare: ma ci pensi? Non uscirò per 3 settimane se non per fare passeggiate con gli amici, andare a casa di qualcuno o prendere un gelato ma poi, ci pensi, quando andrò al concerto? Già so cosa mi metterò, poi dovremo fare la fila ma quando inizierà a cantare... "non vedo l'ora".
E quando arrivava il momento era una gioia talmente grande che dimenticavi tutti i sacrifici fatti prima.
E poi... e poi imparavi che, se sbagli qualcosa, anche una scelta, avevi il tempo e modo per rimediare. E se mamma ti diceva no a qualcosa tu potevi trovare un modo diverso per divertirti o per raggiungere comunque il risultato. Imparavi a trovare tu, e non gli altri, delle soluzioni alternative, delle modalità diverse. In alcuni casi, dovevi anche rinunciare a quel sogno e quindi iniziare a coltivarne un altro. Il che non era una tragedia, anzi.
Oggi è vero che vai al bar ed hai il conto aperto ma non sai mai cosa scegliere, tutto è uguale perché puoi avere tutto e subito.
Puoi avere anche tu il sup solo tuo ma ti perdi la possibilità di condividere i giochi con l'amico e di inventare qualcosa che faccia divertire entrambi.
Ma, soprattutto, oggi di fatto hai perso la maggiore risorsa e potenzialità che tu possa avere: la capacità di scegliere ciò che a te piace, ciò che per te è davvero importante. E, di Conseguenza, la capacità di essere un individuo autonomo. E ti troverai a dover scegliere ciò che il mondo decide che è meglio per te invece che decidere tu cosa sia più importante. Ed avrai bisogno di qualcuno che "ti apra un conto" per poter avere ciò che altri han deciso sia meglio per te.
Ripensandoci: ho avuto un'infanzia, adolescenza, giovinezza tremende, è vero: ma mi hanno consentito di essere adulto, di scegliere, di decidere per me, di essere in grado di lavorare per ottenere dei risultati, di fare sacrifici per raggiungere degli obiettivi. Insomma, di essere una persona autonoma e di scegliere ciò che davvero mi rende serena. E, a quasi 50 anni posso dire: ne è valsa la pena.