Oggi ero a casa mia, nella mia Maratea, seduta a riva a guardare e sentire il mare e ad osservare il cambiare dei colori del cielo e del mare man mano che si avvicinavano e poi scomparivano le nubi.
I bambini giocavano in acqua, i ragazzi flirtavano e provavano i primi approcci, gli anziani chiacchieravano tra loro come gli adulti. C'erano tanti libri, sotto gli ombrelloni, e pochi cellulari. E, forse anche per questo, nonostante tutto c'era un bel silenzio ricco di voci non fastidiose.
Ero lì, seduta, e mi chiedevo: perché sto così bene, con un respiro tranquillo, le spalle rilassate, nel benessere del contatto con l'elemento per me fondamentale?
Perché ero finalmente nella realtà che mi appartiene, quella con la quale risuona da sempre e che oggi difficilmente riesco a trovare, soprattutto nel relazionarmi con gli altri.
Perché oggi non c'è tempo per fare nulla, non c'è tempo per vivere, non c'è tempo per ascoltare, non c'è tempo per sognare o per fissarsi degli obiettivi. Non c'è tempo per ascoltarsi, per sentire come cambia il proprio respiro a seconda di cone si sta, di fermarsi a guardare i cambiamenti dei colori del cielo e del mare, il dispiegarsi delle nuvole. Non abbiamo tempo per sentire il profumo di un bocconotto prima di mangiarlo e sentirne il sapore.
Corriamo, corriamo, in perenne fuga da qualcosa e alla ricerca di qualcosa o qualcuno che ci renda così felici da farci decidere di fermarci.
Ma quella felicità estrema, adrenalinica, quel vivere a mille di fatto ci impedisce di fermarsi e ci condanna ad una continua ricerca dell'estremo, dell'eccessivo, delle emozioni forti...fino al crollo.
Siamo terrorizzati dal silenzio, dall'ozio, dal non fare, dal vuoto apparentemente perché i rimanda alla morte.
"Per sentirmi vivo devo fare sempre qualcosa, devo essere attivo".
Per sentirmi vivo, di fatto, devo quindi uscire da me stesso, perdere il contatto con ciò che sono, non sapere chi sono.
Eppure, se ci fermiamo a guardare un tramonto o ad ascoltare il rumore del mare o a sentire il nostro respiro, non siamo morti: i morti non possono essere in contatto col mondo, non possono sapere cosa piaccia o non piaccia loro...
Non possono scegliere.
Nella nostra fuga perenne, come magistralmente racconta il maestro Vecchioni nella sua splendida Samarcanda, non ci rendiamo conto che, terrorizzati dalla morte, in realtà ci comportiamo come se fossimo davvero morti: non vediamo, non sentiamo, non gustiamo, non sentiamo profumi, non vediamo differenze di colori. Inseguiamo tutto ciò che si muove senza renderci conto che, così facendo, non siamo in grado di scegliere. E, se non siamo in grado di scegliere, non siamo neanche in grado di provare piacere, gioia, gratificazione. Non siamo in grado di abbandonarci alla piacevolezza di un momento perché, per farlo, dobbiamo mecessariamente fermarci.
E guardarci dentro, a costo anche di vedere i nostri buchi neri, il dolore, la tristezza, la rabbia, la frustrazione.
Fuggiamo da tutto questo facendo, cercando gratificazioni esterne temporanee da non renderci conto che non siamo solo il nero e grigio che pensiamo ma siamo un'infinità di colori. Che non dobbiamo cercare fuori ma dentro di noi e che possiamo richiamare ogni volta che vogliamo. Semplicemente fermandoci e guardando il mondo fuori da fermi.